Ventidue anni fa, anarchici e altri manifestanti hanno bloccato con successo il vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio a Seattle. Questo è stato il sostanziale debutto di quello che i giornalisti hanno soprannominato “movimento anti-globalizzazione” – in realtà, un movimento globale contro il capitalismo neoliberista. Negli ultimi anni, nell’anniversario del ventennale abbiamo ripercorso i punti salienti di questo movimento: oggi rifletteremo sulle sue origini e su cosa ci ha insegnato.
Quando pensiamo al cosiddetto movimento anti-globalizzazione, pensiamo alle massicce proteste ai controvertici: oltre alla storica mobilitazione contro il WTO a Seattle, ricordiamo la marcia dei black bloc contro il NAFTA a Quebec City nell’aprile 2001 o le rivolte contro il vertice del G8 di Genova nel luglio successivo. Queste vette erano però solo pennacchi di fumo scaturiti da un incendio – per usare una metafora più precisa, erano funghi che emergevano da una rete di miceli. La rete stessa era composta da una varietà di spazi e movimenti partecipativi anticoloniali e controculturali sparsi in tutto il mondo: rivolte indigene come l’EZLN in Messico, movimenti di occupazione come il Movimento Sem Terra in Brasile e la rete di centri sociali occupati in Europa, movimenti di lavoratori agricoli dal subcontinente indiano alla Corea del Sud, movimenti ecologisti come Earth First!, sindacati di base come gli Industrial Workers of the World, ambienti di musica underground autogestiti come le scene rave e punk.
In questi contesti le persone potevano sviluppare un discorso condiviso sulle proprie vite, le loro aspirazioni e problemi e, cosa più importante, potevano sperimentare modi per impiegare il loro agire collettivo al di fuori degli imperativi del capitalismo e della politica statale (al contrario, le reti radicali odierne basate su Internet spesso forniscono uno spazio virtuale per la discussione senza offrire uno spazio fisico o temporale condiviso per la sperimentazione collettiva che rompa con la logica delle istituzioni che sono sempre dominanti in questa società). Nei suddetti contesti, gli individui sono stati in grado di sviluppare le loro idee e stabilire relazioni durature prima di scontrarsi apertamente con le forze riunite della repressione statale.
Tutto questo è avvenuto anni prima delle massicce proteste ai vertici che hanno attirato l’attenzione dei fotoreporter: per continuare a utilizzare la metafora del micelio, il primo passo è stato che le singole spore trovassero un terreno fertile in cui germinare. Il decentramento ha preceduto la convergenza. Il passo successivo è stato il contatto tra scenari e movimenti individuali, nello stesso modo in cui le spore dei funghi, quando germinano, emettono filamenti fungini cercando di connettersi tra loro.
Molto prima che convergessero alle proteste del controvertice, le persone incluse in questi diversi contesti si sono messe in contatto tra loro, dimostrando le virtù di quello che gli zapatisti chiamavano “Un mondo in cui si adattano molti mondi”. I vecchi anarchici che erano sopravvissuti alle crisi e alle dittature della metà del XX secolo entrarono in contatto con i punk; i punk si sono recati in Chiapas e hanno incontrato gli organizzatori indigeni; gli organizzatori indigeni hanno chiesto i Global Days of Action; il resto è storia.
Basandosi sull’approccio originario, alcune delle prime affermazioni pubbliche di quello che sarebbe diventato il movimento contro la globalizzazione capitalista hanno riscosso successo, perché non solo si sono opposte alla politica statale e aziendale ma hanno anche contestato lo spazio di azione e quindi le relazioni sociali quotidiane. Ad esempio, il movimento anti-roads[1] nel Regno Unito ha creato occupazioni a lungo termine, Zone Temporanee Autonome in cui le persone hanno potuto costruire nuove relazioni e una condivisione di intenti (la cosa più vicina a questi nell’ultimo decennio è probabilmente il movimento intorno alla ZAD a Notre-Dame-des-Landes.) Il movimento anti-road ha contribuito a dare origine a Reclaim the Streets (RTS) che ha cercato di creare zone autonome negli ambienti urbani, ostacolando e interrompendo immediatamente il modo di vivere che dipendeva dalla cultura automobilistica. Reclaim the Streets, a sua volta, è stato uno dei principali attori nell’organizzazione del “Carnevale contro il Capitalismo” a Londra il 18 giugno 1999, la prima Giornata d’Azione Globale di grande successo, che ha spianato la strada alla mobilitazione contro l’OMC a Seattle.
Negli Stati Uniti, è stata tracciata una simile traiettoria a partire dalle occupazioni delle foreste e dal Minnehaha Free State. È importante sottolineare che praticamente tutti questi esperimenti erano fondamentalmente gioiosi, affermativi e creativi. Reclaim the Streets ha organizzato feste di strada – sì, hanno distrutto le strade con i martelli pneumatici ma la polizia non poteva vederli o sentirli perché i martelli pneumatici erano nascosti sotto le gonne dei trampolieri e soffocati dalla musica techno. Ogni manifestazione presentava pupazzi giganti e si concludeva con un concerto punk o un rave party. Proliferavano le azioni di performance art, insieme a scherzi come quelli organizzati dagli Yes Men, che allestivano siti web fasulli per le Organizzazioni del Commercio Mondiale e poi inviavano falsi portavoce spacciandosi per loro rappresentanti, burlandosi di chi scambiava i falsi siti web per pagine ufficiali di queste istituzioni.
Questo approccio gioioso e creativo alla resistenza è qualcosa che abbiamo perso, anche se gli scontri negli ultimi 20 anni si sono intensificati in tutto il mondo. Un’atmosfera giocosa e creativa fiorì in modo naturale da un movimento nato da spazi controculturali. Ripercorriamo questo resoconto da una delle azioni significative di Reclaim the Streets, l’occupazione dell’autostrada M41 il 13 luglio 1996: almeno negli Stati Uniti, una delle cose che ha permesso ai manifestanti di bloccare il vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio è stato il fatto che nulla del genere era mai avvenuto da una generazione. Le autorità sono state colte di sorpresa e hanno fatto in modo che non accadesse mai più: a Seattle, il 30 novembre 1999, i manifestanti hanno affrontato qualcosa come 400 agenti di polizia; entro il 2017, i manifestanti si sono scontrati con oltre 28.000 membri del personale di sicurezza alla cerimonia di insediamento di Donald Trump a Washington DC, o 31.000 alle proteste del G20 ad Amburgo. Negli ultimi due decenni, gli stati hanno riversato un’enorme quantità di risorse nella repressione delle proteste interne.
Possiamo scoprire che due fattori possono contribuire alla strategia della convergenza. La lezione qui è che dobbiamo spostare continuamente le linee di scontro e aprire nuovi fronti, non impantanarci cercando di ripeterci in situazioni in cui le autorità possono isolarci e concentrare tutte le loro forze contro di noi. Questo non è un argomento contro il continuare a impiegare le stesse tattiche, quanto un argomento a favore della ricerca continua di nuovi spazi per svilupparle.
L’altra cosa che ha reso il movimento contro la globalizzazione capitalista così potente al suo apice è che, oltre a essere eterogeneo, era fondamentalmente decentralizzato. Partecipavano molti gruppi organizzati gerarchicamente – sindacati, partiti politici, organizzazioni di attivisti con una leadership radicata – ma non c’erano meccanismi attraverso i quali ottenere il controllo centrale, quindi nessuno di loro era mai in grado di determinare ciò che accadeva nelle piazze. L’enorme potenziale del “movimento dei movimenti” è emerso organicamente attraverso la libera interazione di programmi e tattiche. Era un caos più potente di qualsiasi ordine.
Un movimento così potente che fine ha fatto? Non è stato sconfitto solo da un’escalation poliziesca. In un articolo che abbiamo commissionato per Rolling Thunder, il nostro Journal of Dangerous Living, David Graeber ha sostenuto che il movimento contro la globalizzazione capitalista si è stabilizzato perché sono stati raggiunti gli obiettivi intermedi di screditare le istituzioni finanziarie internazionali come il WTO più rapidamente di quanto ci aspettassimo. Probabilmente, ciò è avvenuto in modo particolarmente rapido perché, dato che stavamo uscendo da un periodo durante il quale l’ondata della lotta politica era notevolmente rifluita dagli anni ’60, gli obiettivi di molti dei partecipanti, in primo luogo, non erano particolarmente radicali.
Un decennio e mezzo dopo, negli Stati Uniti, abbiamo assistito all’appropriazione da parte di Donald Trump di slogan come: “Commercio equo, non libero scambio” direttamente dall’ala liberale del movimento contro la globalizzazione. Questi slogan facevano comodo a Trump perché non rifiutavano il capitalismo stesso: lasciavano aperta la possibilità che una leadership politica “migliore” potesse farlo funzionare correttamente. Le anime timide, che ritenevano che la retorica e le aspirazioni radicali avrebbero alienato i potenziali sostenitori e indebolito il movimento, hanno spianato la strada affinché la nostra eredità fosse cooptata dai nostri nemici di estrema destra.
In effetti, il movimento stesso sarebbe stato semplicemente chiamato movimento anticapitalista se non fosse stato per i riformisti e i giornalisti che hanno deliberatamente soppresso quel linguaggio. Solo col movimento Occupy del 2011 gli anarchici riuscirono a costringere giornalisti e liberali a pronunciare ad alta voce la parola “capitalismo” senza sogghignare, costringendoli a riconoscere le cause sistemiche della sofferenza indotta dal mercato.
Per quelli di noi che non hanno mai creduto che il capitalismo potesse essere riformato – che si sono avvicinati ai vertici del commercio globale come opportunità per dimostrare il tipo di tattiche e valori che speravamo potessero diffondersi ovunque a persone arrabbiate e disperate – uno dei limiti che abbiamo raggiunto è stato che, a un certo punto, gli scontri si sono intensificati più velocemente dell’aggregazione nella lotta. Man mano che gli scontri si facevano più intensi, era difficile resistere alla tentazione di concentrare tutta la nostra attenzione sugli avversari immediatamente contrapposti a noi – o, peggio ancora, concentrarci verso l’interno, su altri partecipanti al movimento – invece di continuare a dirigere la nostra attenzione verso l’esterno, verso quelli che non erano ancora coinvolti ma che avrebbero potuto unirsi a noi, ribaltando la situazione, se avessimo fatto di più per connetterci con loro. Una delle funzioni principali della polizia è stata quella di trascinarci in scontri privati e rancorosi verso le autorità, rinchiudendoci in una battaglia dal corto respiro a loro favorevole, al fine di distrarci dal terreno sociale più ampio, che comprende tutti coloro che potrebbero unirsi a noi ma che sono ancora incerti.
Dovremmo sempre aspirare a rivolgerci a tutti coloro che sono soggetti alle stesse contraddizioni generali che subiamo tutti noi, non semplicemente a un ambiente o movimento politico esistente. Piuttosto che intensificare le nostre tattiche, immaginando di poter vincere queste battaglie da soli, dovremmo mirare a sostenere gli altri nell’affrontare i loro bisogni al di fuori e contro la logica dello stato e del capitalismo, cercando di mettere in atto tattiche e strategie con cui affrontare i problemi. Quando ci riusciremo, le lotte sociali aumenteranno da sole. Sono stati innanzitutto i nostri successi nel far questo a creare il terreno su cui inizialmente è cresciuto il movimento contro la globalizzazione capitalista.
Quando stai cercando di vincere una battaglia è d’aiuto inquadrare il campo di battaglia da una prospettiva ampia e più lontano possibile, prima di iniziare a definire la tua strategia. È come il gioco del go che è molto più istruttivo del gioco degli scacchi.
Alla fine, non è stata né l’escalation poliziesca né il nostro riflusso a suonare la campana a morto del movimento. Piuttosto, il movimento contro la globalizzazione ha subito la sua impasse in seguito agli attacchi dell’11 settembre 2001, quando i governi a cui ci siamo opposti sono stati in grado di sostituire alle nostre proposte di cambiamento sociale una narrazione basata sul terrorismo, la guerra e la violenza etnica. Questo cambio di narrativa è stato fatale non solo perché ha distratto o intimidito coloro che altrimenti avrebbero potuto aderire al movimento ma anche perché ha permesso a gruppi autoritari che erano stati emarginati dal movimento di riprendere l’iniziativa e occupare lo spazio della protesta.
Il movimento contro la guerra, immediatamente seguente al cosiddetto movimento no-global allo stesso modo di come la reazione segue la rivoluzione, fornisce un puntello utile rispetto ai loro punti di forza di organizzazioni gerarchiche. Fin dall’inizio, i tradizionali organizzatori del partito marxista si sono assicurati le redini del movimento e l’ambiguità del discorso “pacifista” si è rivelata maggiormente favorevole alle loro ambizioni rispetto anche alla più confusa opposizione alle istituzioni finanziarie globali. Subito dopo gli attentati dell’11 settembre, i membri del Partito Mondiale dei Lavoratori hanno organizzato la coalizione ANSWER come gruppo di facciata per le loro mire politiche; sei mesi dopo, nel marzo 2002, i membri del Partito Comunista Rivoluzionario fondarono la coalizione Not in Our Name. Questi due dinosauri hanno dominato l’organizzazione della protesta per molti anni a venire. Di conseguenza, un numero maggiore di persone si è riversato in strada – notoriamente, il 15 febbraio 2003 ha visto una delle più grandi manifestazioni di protesta di tutti i tempi – senza l’impatto delle forti mobilitazioni che avevano avuto luogo contro la globalizzazione capitalista.
Tuttavia, fino ad oggi, le icone degli anni ’60 continuano a dare lezioni ai giovani sull’importanza di una leadership centralizzata. Abbiamo ascoltato questa critica durante tutto il movimento Occupy, poi durante le rivolte di Ferguson e Baltimora, poi durante la resistenza a Trump e infine durante la rivolta del 2020. In realtà, il decentramento e l’azione diretta organizzata in modo autonomo si sono rivelati essenziali per ogni potente movimento contemporaneo, mentre la leadership centralizzata è stata fatale per ogni lotta che subisce il suo dominio. A titolo di esempio, basti solo confrontare il movimento per la “giustizia climatica”, che ha ostacolato il flusso di finanziamenti ad aziende no-profit e a strateghi liberali che seguono “An Inconvenient Truth” di Al Gore e compararlo col movimento contro la polizia e la supremazia bianca.
Cosa potremmo imparare, allora, guardando retrospettivamente al movimento contro la globalizzazione capitalista? Innanzitutto, occorre inquadrare il movimento nel suo contesto storico appropriato. In precedenza, i vecchi movimenti sindacali del XX secolo erano stati aggirati dalla riorganizzazione postfordista del processo produttivo, che trasformò il mondo intero in una fabbrica composta da parti immediatamente sostituibili. In risposta, mentre le organizzazioni sindacali tentavano inutilmente di tenersi sul terreno delle loro precedenti vittorie, il movimento contro la globalizzazione si è organizzato a livello internazionale a partire dagli effetti che il capitalismo ha su tutti noi, invece di cercare semplicemente di difendere le specifiche posizioni di alcuni lavoratori all’interno dell’economia. Questo approccio prefigurava il successo del movimento Occupy, che iniziò anche affrontando il capitalismo come condizione generale e condivisa, piuttosto che come un tentativo contrattuale per studenti, lavoratori o altre specifiche categorie.
Negli anni ’80 e ’90, gli spazi autogestiti che hanno contribuito a dare origine al movimento contro la globalizzazione erano seducenti perché partecipativi, in un’epoca in cui sia i media aziendali che la politica in generale erano verticistici e unidirezionali. I social media che tutti usano oggi sono una cooptazione dei modelli partecipativi esemplificati dalla rete Indymedia emersa durante l’organizzazione a Seattle nel 1999. Oggi è essenziale per la stabilità dell’ordine prevalente far apparire gli atteggiamenti e le alleanze che lo perpetuano come risultato dell’espressione volontaria di cittadini comuni, non dei leader di partito o dei media aziendali, entrambi ampiamente screditati.
Quali bisogni lascia però insoddisfatti un mondo di social media apparentemente “partecipativo”? Il bisogno di una presenza reale e di una connessione, di un’esperienza vissuta e condivisa. Lo abbiamo visto durante il movimento Occupy e ancora più recentemente durante la rivolta del 2020: in un’era di connettività digitale e di isolamento fisico, le persone desiderano urgentemente condividere spazio e tempo tra loro, condividere esperienze non riducibili ad una manciata di pixel.
Il trionfalismo capitalista degli anni ’90 è ormai un ricordo del passato. Il capitalismo del 21esimo secolo non ha alcuna pretesa di portare avanti una ideologia dove tutti possono trarre beneficio dall’economia e dallo stato: parte invece dalla premessa che milioni di persone saranno escluse e disumanizzate. I politici come Donald Trump hanno riscosso successo non promettendo alle persone un tenore di vita migliore ma promettendo ai loro elettori che la violenza intrinseca della società capitalista sarà principalmente diretta verso altri.
Come risposta, potremmo fare un passo indietro rispetto allo scontro immediato che, volente o nolente sicuramente persisterà e si intensificherà, per chiedere alle persone di cosa hanno disperatamente bisogno oggi e riflettere su come potremmo organizzarci per fornirle su base popolare, come punto di partenza per lotte che alla lunga possano sostituire il potere statale con una nuova base relazionale. Non è solo una questione di cibo e riparo, che i gruppi di mutuo soccorso hanno mirabilmente garantito con le loro mobilitazioni durante la pandemia, né per garantire la nostra sopravvivenza di fronte a disastri ecologici sempre più diffusi. Si tratta di creare anche connessioni significative tra le persone, incanalare la creatività lontano dagli spazi virtuali delle piattaforme aziendali, inventando nuove forme di gioia e convivialità. Questi dovrebbero essere i nostri punti di partenza mentre ci avviciniamo alla fase successiva della nostra lotta contro il capitalismo e contro la distruzione industriale della biosfera.
Chrimetinc
Testo originale (“Epilogo sul movimento contro la globalizzazione capitalista 22 anni dopo Seattle\ N30: cosa può insegnarci oggi”): https://bit.ly/3Gh18YM
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